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Temi legali

Temi di attualità giuridica: dalla raccolta delle sentenze più significative agli argomenti più dibattuti

Le nuove regole sulla cittadinanza iure sanguinis

Libro delle leggi francesi

Abstract. Excursus storico della cittadinanza. La legge 91/1992. La cittadinanza per discendenza materna. La perdita della cittadinanza per naturalizzazione straniera del padre. La procedura per il riconoscimento. La necessità del nuovo intervento normativo. Reazioni e criticità.

Introduzione

Il decreto-legge del 28 marzo 2025, n. 36 introduce modifiche urgenti alla normativa sulla cittadinanza italiana iure sanguinis. Questo intervento si propone di aggiornare una disciplina rimasta invariata per oltre 30 anni, adattandola ai cambiamenti sociali e giuridici. Pur mantenendo il principio dello ius sanguinis, il decreto introduce criteri più stringenti per garantire che la cittadinanza sia concessa solo a chi dimostri legami effettivi e attuali con la Repubblica Italiana.

Tra le principali novità:

  1. limitazioni alla trasmissione automatica della cittadinanza: sarà riconosciuta automaticamente solo per due generazioni (genitori o nonni nati in Italia);

  2. vincoli di residenza: i figli di italiani nati all'estero potranno ottenere la cittadinanza solo se uno dei genitori ha risieduto in Italia per almeno due anni consecutivi prima della loro nascita;

  3. registrazione obbligatoria: gli atti di nascita dei discendenti devono essere registrati entro i 25 anni di età per evitare la perdita del diritto alla cittadinanza;

  4. prevenzione di disparità di trattamento: le nuove norme si applicano indipendentemente dalla data di nascita, evitando discriminazioni tra generazioni.

Queste misure mirano a evitare un'espansione incontrollata del numero di cittadini italiani residenti all'estero senza legami concreti con l'Italia, garantendo al contempo un sistema più equo e sostenibile.

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Evoluzione storica

La cittadinanza italiana ha attraversato un percorso storico ricco e articolato, influenzato da cambiamenti sociali, politici e giuridici.

Nel diritto romano, la cittadinanza era uno status che garantiva privilegi come l'accesso alle cariche pubbliche, la partecipazione alle assemblee politiche e vantaggi fiscali. Era concessa dall'imperatore e rappresentava un legame diretto con lo Stato. Nel Medioevo, la cittadinanza era legata al possesso di una casa entro le mura cittadine e al pagamento delle imposte. Successivamente, si estese agli immigrati, offrendo vantaggi economici e giuridici, ma anche doveri come la difesa del comune. Nell’età moderna e preunitaria, gli Stati preunitari adottarono modelli simili a quelli francesi, con leggi che regolavano la cittadinanza basandosi su criteri di nascita e residenza. Ad esempio, il codice civile albertino del Regno di Sardegna prevedeva l'acquisto della cittadinanza per i nati all'estero da padre suddito sardo.

Il Codice civile del 1865 introdusse il principio dello ius sanguinis, stabilendo che la cittadinanza si acquisiva per discendenza dal padre, indipendentemente dal luogo di nascita.

Nel 1912, in un periodo di intensa emigrazione transoceanica, di ampliamento del suffragio e di mobilitazione dei cittadini verso la Prima Guerra Mondiale, furono introdotte nuove norme sulla cittadinanza italiana con la legge del 13 giugno 1912, n. 555. Questa legge, separata dal codice civile, andava oltre il semplice regolamento dei diritti civili e dei rapporti personali: voleva rafforzare un legame di fedeltà con lo Stato italiano.  Sebbene mantenesse il modello del codice civile del 1865, fondato sullo ius sanguinis e l'unità della cittadinanza familiare basata sulla posizione del padre e del marito, la nuova legge introdusse alcune modifiche significative. Tra queste, si ridusse l'unicità della cittadinanza personale, consentendo in alcuni casi la doppia cittadinanza, al fine di preservare l'unità della famiglia. Ad esempio, il concetto di cittadino venne specificato come “cittadino per nascita”, influenzato dal diritto tedesco e americano, per sottolineare che i figli di italiani nati nelle Americhe erano italiani per diritto quanto americani. Inoltre, l'articolo 7 permise ai cittadini italiani nati e residenti all'estero, riconosciuti come cittadini locali, di mantenere la cittadinanza italiana, salvo rinuncia formale al raggiungimento della maggiore età.

La normativa del 1912 rimase stabile per decenni, salvo adattamenti legati ai cambiamenti territoriali dopo i due conflitti mondiali. Ad esempio, il trattato di San Germano del 1920 sancì il cambiamento di cittadinanza per gli abitanti dei territori ceduti all'Italia, così come il trattato di Parigi del 1947 regolò le cittadinanze nelle aree cedute alla Francia e alla Jugoslavia. Inoltre, gli Accordi De Gasperi-Gruber del 1946 permisero la revisione delle opzioni di cittadinanza per i residenti dell'Alto Adige di lingua tedesca.

A partire dalla metà degli anni '70, i cambiamenti nella società italiana e la necessità di applicare pienamente i principi costituzionali di uguaglianza hanno reso indispensabile una revisione delle leggi sulla cittadinanza. Due importanti sentenze della Corte costituzionale, la n. 87 del 1975 e la n. 30 del 1983, hanno dichiarato incostituzionali due pilastri della precedente normativa: la perdita della cittadinanza italiana per la donna che, sposando uno straniero, acquisiva automaticamente la sua cittadinanza, e il principio che la cittadinanza iure sanguinis derivasse esclusivamente dal padre, se noto. Questi interventi hanno messo in discussione il concetto di unicità della cittadinanza all'interno del nucleo familiare.

Il legislatore ha agito in risposta a queste sentenze. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto l'articolo 219, che permetteva alle donne che avevano perso la cittadinanza italiana per matrimonio con uno straniero di riacquistarla retroattivamente tramite una semplice dichiarazione. Successivamente, la legge n. 123 del 1983 ha eliminato la disparità di trattamento tra coniugi: la cittadinanza non veniva più acquisita automaticamente dalla moglie straniera di un cittadino italiano, ma si prevedeva la possibilità per il coniuge straniero, uomo o donna, di richiedere una naturalizzazione semplificata. Questa legge ha anche sancito la parità tra figli di padre e madre italiani, nonché tra figli adottivi e figli biologici, attribuendo a tutti la cittadinanza italiana automaticamente.

Un elemento chiave riguarda la doppia cittadinanza: i figli con doppia cittadinanza avevano l'obbligo di scegliere quale mantenere entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Tuttavia, con la legge n. 180 del 1986, tale termine fu prorogato fino all'entrata in vigore di una nuova legge organica sulla cittadinanza, facilitando anche il riacquisto della cittadinanza italiana attraverso una dichiarazione da parte di coloro che l'avevano persa per non aver effettuato la scelta.

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La legge n. 91/1992

La legge del 5 febbraio 1992, n. 91, ha rappresentato un momento di svolta per la disciplina sulla cittadinanza italiana, riscrivendola in modo organico e sistematico. L’emigrazione italiana, che aveva caratterizzato il secolo precedente, era ormai diminuita, mentre l’immigrazione non era ancora un fenomeno rilevante e la mobilità delle persone in Europa era ancora contenuta.

Questa legge ha consolidato le riforme adottate negli anni ’70 e ’80, ma ha anche introdotto un cambiamento significativo: l’abbandono definitivo del principio di unicità della cittadinanza. Dal 16 agosto 1992, infatti, gli italiani che acquisiscono una cittadinanza straniera non perdono più automaticamente la cittadinanza italiana. I cittadini con più cittadinanze (ottenute iure sanguinis o iure soli) non devono più scegliere una sola cittadinanza, né i figli di italiani naturalizzati stranieri durante la loro minore età perdono automaticamente quella italiana. Ad oggi, la perdita della cittadinanza italiana avviene solo in seguito a una rinuncia esplicita e formale (articolo 11) oppure per gravi violazioni ai doveri di fedeltà verso la Repubblica (articolo 12).

Inoltre, per un periodo limitato, i cittadini che avevano perso la cittadinanza in base alle norme precedenti hanno avuto l’opportunità di riacquistarla tramite una semplice dichiarazione, anche senza bisogno di stabilire nuovamente la residenza in Italia.

Negli anni successivi, gli interventi legislativi sulla cittadinanza iure sanguinis sono stati pochi e mirati. Ad esempio:

  • legge n. 379/2000 che ha permesso a chi era emigrato prima del 16 luglio 1920 dai territori acquisiti dall’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, e ai loro discendenti, di ottenere la cittadinanza italiana tramite dichiarazione entro cinque anni (successivamente prorogati);

  • legge n. 124/2006 che ha esteso la possibilità di riacquisto della cittadinanza senza scadenza ai discendenti di persone che l’avevano persa rimanendo nei territori ceduti alla Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale;

  • legge n. 94/2009 che ha aumentato i tempi per la naturalizzazione semplificata dei coniugi residenti in Italia e ha introdotto l’obbligo di conoscenza della lingua italiana per chi richiede la naturalizzazione nel 2019.

Dunque, la cittadinanza italiana può essere riconosciuta ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera a) della legge n. 91/1992, purché venga verificata la discendenza da un cittadino italiano e l’assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza attraverso le generazioni, in conformità alle diverse normative che si sono succedute nel tempo. Tale riconoscimento avviene sulla base della normativa in vigore al momento della nascita o del verificarsi delle altre condizioni previste dalla legge. Si applica il principio del come previsto dall’articolo 20 della legge n. 91/1992, il quale stabilisce che lo stato di cittadinanza acquisito in passato non cambia, salvo eventi avvenuti dopo l’entrata in vigore della legge stessa. Per eventi antecedenti al 1º luglio 1912, si fa riferimento all’articolo 19 della legge n. 555/1912, il quale espone un principio analogo. Sebbene questa legge sia stata abrogata, continua a regolare i fatti avvenuti tra il 1912 e il 1992. Analogamente, le disposizioni del codice civile del 1865, abrogate successivamente, restano applicabili per le situazioni accadute fino al 30 giugno 1912. Pertanto, nell’esaminare una richiesta di cittadinanza, oltre alla legge n. 91/1992, si considerano anche la legge n. 555/1912, il codice civile del 1865 e, in alcuni casi, le normative degli Stati preunitari o eventuali accordi internazionali per i cambiamenti di sovranità.

Il principio centrale è sempre lo stesso: la cittadinanza è trasmessa per discendenza, a condizione che l’antenato emigrato fosse vivo il 17 marzo 1861 (o successivamente, quando il suo luogo di origine è passato sotto sovranità italiana). Sebbene i dettagli possano variare, è essenziale determinare, caso per caso, quale normativa applicare in relazione al tempo e al luogo. Nella prassi, l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis è automatica, senza formalità particolari. Anche se la registrazione all’ufficiale di stato civile non viene effettuata, la situazione può essere sanata successivamente, persino dopo molte generazioni. È possibile attribuire retroattivamente la cittadinanza anche a persone decedute, come confermato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25317 del 2022, che ha ribadito il carattere permanente e imprescrittibile della cittadinanza acquisita alla nascita.

Per chi nasce in Italia, è obbligatoria la registrazione allo stato civile entro dieci giorni, pena conseguenze significative. Al contrario, chi nasce all’estero può far valere i propri diritti di cittadinanza senza dimostrare la conoscenza della lingua italiana o l’assenza di precedenti penali. È sufficiente dimostrare la discendenza, senza oneri di prova per eventuali interruzioni del diritto.

 

L’acquisto della cittadinanza per via materna

La sentenza n. 30 del 1983 della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni della legge 13 giugno 1912, n. 555, che limitavano l’acquisto della cittadinanza italiana per i figli di madre italiana, distinguendoli da quelli di padre italiano. Tuttavia, per lungo tempo la giurisprudenza ha stabilito che questa incostituzionalità avesse effetto solo per i figli di madre italiana nati dal 1º gennaio 1948 in poi, data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che vietava discriminazioni di questo tipo.

Secondo questa interpretazione, ai nati fino al 31 dicembre 1947 si applicavano le norme in vigore all’epoca, anche se successivamente dichiarate incostituzionali. Questo approccio è stato confermato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12061 del 27 gennaio 1998, che ha stabilito che gli effetti di una pronuncia di incostituzionalità non retroagiscono oltre il 1º gennaio 1948, lasciando intatte le situazioni anteriori a quella data.

Tuttavia, con la sentenza n. 4466 del 2009, la Cassazione a Sezioni Unite ha modificato questa impostazione, stabilendo che una norma dichiarata incostituzionale non può essere applicata nei rapporti ancora giustiziabili, anche se l’incostituzionalità è sopravvenuta. La nuova interpretazione afferma che l’acquisto della cittadinanza non dipende dalla data di nascita, ma dal rapporto di filiazione esistente al 1º gennaio 1948. Di conseguenza, i figli di madri italiane che avevano perso la cittadinanza a causa del matrimonio con uno straniero (senza il proprio consenso) riacquistano la cittadinanza italiana dal 1º gennaio 1948, purché la situazione sia ancora tutelabile giuridicamente.

 

La perdita della cittadinanza del minore per naturalizzazione straniera del padre

Le ordinanze nn. 17161 del 2023 e 454 del 2024 della Corte di Cassazione hanno fornito nuove interpretazioni dell’art. 12, comma secondo, della legge n. 555 del 1912. Questa norma, applicabile tra il 1º luglio 1912 e il 15 agosto 1992, prevedeva che i figli minori non emancipati di chi perdeva la cittadinanza diventassero stranieri, a condizione che risiedessero con il genitore e acquisissero la cittadinanza di uno Stato straniero. La Corte ha stabilito che tali disposizioni si applicano anche ai figli minori bipolidi alla nascita. Pertanto, il figlio ha perso la cittadinanza italiana se il padre, esercente la responsabilità genitoriale, ha acquistato volontariamente una cittadinanza straniera, rinunciando a quella italiana. Questo comporta l’interruzione della linea di trasmissione della cittadinanza italiana ai discendenti, che oggi non possono ottenere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis. Questa interpretazione si discosta dalle prassi seguite per decenni dall’amministrazione e dalla giurisprudenza precedente. Tradizionalmente, si riteneva che la naturalizzazione del padre non influisse sul figlio già in possesso della cittadinanza straniera fin dalla nascita (grazie al principio dello iure soli), consentendogli di mantenere anche la cittadinanza italiana. L’orientamento interpretativo adottato dalla Corte supera la prassi di riconoscere la cittadinanza anche al bipolide alla nascita e ai suoi discendenti. Si pone dunque il problema della sorte dei riconoscimenti già effettuati dall’amministrazione, che non sembrano sanabili per decorso del tempo. Tuttavia, una possibile revoca dei riconoscimenti amministrativi solleva questioni rilevanti, soprattutto riguardo al legittimo affidamento dei cittadini che hanno beneficiato dei diritti legati alla cittadinanza, come il passaporto, il diritto di voto e la libertà di circolazione nell’Unione Europea.

 

Il procedimento di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis in via amministrativa

Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis è un procedimento complesso che richiede un’accurata ricostruzione documentale, principalmente a causa dell’assenza di limiti temporali o generazionali e della necessità di applicare leggi diverse, talvolta abrogate nel tempo. Come indicato nella circolare del Ministero dell’Interno K 28.1 dell’8 aprile 1991, la domanda deve essere accompagnata dai certificati di nascita, matrimonio e, se necessario, di morte di tutte le generazioni interessate fino al richiedente e ai figli minorenni. L’operatore consolare o il giudice deve quindi ricostruire un vero e proprio “albero genealogico”. Per verificare la continuità dello status di cittadino italiano, è necessario dimostrare che l’antenato emigrato dall’Italia non abbia acquisito volontariamente una cittadinanza straniera prima della nascita della seconda generazione o che non abbia rinunciato alla cittadinanza italiana. Inoltre, bisogna accertare che non ci siano state altre cause di interruzione della trasmissione della cittadinanza, come la naturalizzazione del padre durante la minore età del figlio. Una volta riconosciuta la cittadinanza, si procede con la trascrizione degli atti di nascita (e, eventualmente, di matrimonio) del richiedente e dei suoi figli minorenni. Questi documenti vengono inviati dal consolato al comune italiano di ultima residenza dell’antenato emigrato.

Il procedimento amministrativo somiglia a quello giurisdizionale, ma con una distribuzione diversa dell’onere della prova. In sede amministrativa, spetta al richiedente dimostrare l’assenza di eventi che interrompano la trasmissione o il mantenimento della cittadinanza. La prova è esclusivamente documentale, ad esempio, il richiedente deve fornire documenti che attestino l’assenza di naturalizzazioni straniere volontarie prima del 15 agosto 1992. Inoltre, esso si basa sugli atti disponibili e può essere rivisto in qualsiasi momento qualora emergano circostanze interruttive non rilevate o erroneamente valutate. Non si applicano i limiti previsti dall’articolo 21-novies della legge n. 241/1990, poiché il riconoscimento della cittadinanza non equivale a un’autorizzazione o a un vantaggio economico. Inoltre, l’ordinamento italiano non riconosce alcun effetto consolidante alla semplice considerazione di fatto di una persona come cittadino, rendendo il riconoscimento amministrativo anche a lungo termine insufficiente a consolidare un “possesso di stato”.

La giurisprudenza e le interpretazioni amministrative tendono a favorire una maggiore apertura verso i discendenti degli emigrati italiani, consentendo loro di avanzare richieste di riconoscimento della cittadinanza italiana. Questo fenomeno, cresciuto notevolmente nel tempo, ha portato a un aumento significativo delle domande di cittadinanza italiana iure sanguinis, avanzate soprattutto da stranieri con almeno un antenato italiano. Tra il 2013 e il 2024, i nati all’estero hanno registrato un aumento del 51% (con un incremento di circa 1,5 milioni rispetto ai meno di 3 milioni iniziali), mentre i nati in Italia sono aumentati del 27%, ossia di circa 410.000 unità. Dei cittadini italiani residenti all’estero alla fine del 2024, oltre il 70% risultava nato fuori dal territorio nazionale, con una percentuale sempre crescente. Particolarmente emblematico è il caso del Sud America, che dalla fine dell’Ottocento ha accolto grandi ondate di emigrazione italiana, con picchi nei primi decenni del Novecento e nei periodi immediatamente successivi alle due guerre mondiali.

Per molti discendenti degli emigrati, ottenere la cittadinanza italiana rappresenta un vantaggio rilevante, poiché il passaporto italiano garantisce la libertà di vivere e lavorare in qualsiasi Paese dell’Unione Europea. Inoltre, consente l’ingresso senza visto in numerosi Stati, tra cui gli USA e altri Paesi che impongono visti ai possessori di passaporti sudamericani. Tuttavia, la grande mole di richieste di accertamento della cittadinanza presentate ai consolati italiani, soprattutto in Sud America e in alcuni Paesi europei come la Spagna, ha generato lunghi tempi d’attesa e ha influenzato negativamente il funzionamento dei servizi consolari.

Di fronte a questa situazione, molti richiedenti scelgono di trasferire temporaneamente la propria residenza in Italia per avviare la procedura di riconoscimento dello status di cittadino direttamente presso gli uffici dello stato civile dei comuni italiani, bypassando le autorità consolari. Altri si rivolgono al sistema giudiziario italiano, contribuendo al forte aumento del contenzioso in materia di cittadinanza. La maggior parte di questi richiedenti, spesso di quarta o quinta generazione, non conosce la lingua italiana e non conserva legami culturali o sociali con l’Italia. Questa problematica solleva interrogativi sulla sostenibilità di un diritto alla cittadinanza universale basato esclusivamente sul legame sanguigno. È essenziale che il legislatore intervenga per stabilire un equilibrio tra i valori costituzionali e le esigenze della società moderna. Un sistema che permette a milioni di persone, senza legami effettivi con il territorio o la comunità nazionale, di attivare la propria cittadinanza in qualsiasi momento appare in contrasto con i principi di uguaglianza e ragionevolezza. Secondo la Corte di Cassazione (sentenza SU n. 25317/2022), spetta alla legislazione determinare il collegamento effettivo tra lo Stato e l’individuo richiedente.

Tali disposizioni dovrebbero garantire che solo chi dimostra un vero interesse a far parte attivamente della comunità italiana possa essere riconosciuto come cittadino. Inoltre, le modalità di concessione o revoca della cittadinanza devono essere conformi ai principi del diritto dell’Unione Europea, sottoponendosi al controllo della Corte di Giustizia.

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La necessità dell’intervento normativo

La necessità di intervenire sul piano legislativo si manifesta nel contesto della revisione delle regole che disciplinano la trasmissione della cittadinanza. Tale modifica deve conciliare esigenze diverse, che riflettono valori costituzionali eterogenei, con l’obiettivo di bilanciare il mantenimento dei legami con l’Italia, l'incoraggiamento dell’immigrazione di ritorno da parte dei discendenti degli emigrati italiani e la necessità che il riconoscimento e la conservazione della cittadinanza italiana siano basati su vincoli concreti con la Repubblica e il suo territorio. L'intento è evitare, per il futuro, attribuzioni di cittadinanza a individui, anche nati in precedenza, che non corrispondano alle attuali esigenze della comunità nazionale. La cittadinanza, infatti, si configura come un legame giuridico fondato su una connessione sociale reale, una solidarietà effettiva di vita, interessi e sentimenti, unita alla reciprocità di diritti e doveri (principio sancito nel caso Nottebohm - Liechtenstein vs. Guatemala, 6 aprile 1955).

In tale contesto, l’articolo 1, comma 1, introduce l’articolo 3-bis nella legge n. 91/1992, al fine di concretizzare il principio del vincolo effettivo, limitando il riconoscimento della cittadinanza per chi è nato e risiede all’estero. La disposizione, collocata dopo l’articolo 3 della legge, non implica una nuova forma di perdita della cittadinanza, come previsto dall’articolo 13, ma rappresenta una preclusione ex tunc all'acquisizione automatica della cittadinanza. Tale norma si applicherà a tutti i futuri casi in cui l’amministrazione o i tribunali saranno chiamati a valutare richieste di riconoscimento di cittadinanza basate esclusivamente su automatismi normativi, senza che i richiedenti o i loro predecessori abbiano compiuto atti idonei a dimostrare un legame reale con l’Italia, espresso attraverso l'esercizio di diritti e l’adempimento dei doveri associati alla cittadinanza.

Sono previste due eccezioni:

  1. le domande di riconoscimento presentate entro il 27 marzo 2025 (ore 23:59, ora di Roma), indipendentemente dal luogo di presentazione, garantiscono il mantenimento della rilevanza del vincolo. Questo principio non considera la data di nascita ma si basa sull’attivazione dei richiedenti prima della data di entrata in vigore della norma. Rimangono valide le procedure giudiziali avviate prima del 27 marzo 2025 (ore 23:59, ora di Roma);

  2. per evitare l’applicazione della preclusione, è necessario che almeno uno dei genitori cittadini sia nato in Italia o abbia risieduto nel Paese per almeno due anni consecutivi prima della nascita dell’interessato, e che uno degli ascendenti di primo grado dei genitori o degli adottanti cittadini sia nato in Italia.

In base al nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992, il richiedente ha l’onere di dimostrare l’assenza di condizioni ostative alla trasmissione della cittadinanza. Non sono ammesse come prove né dichiarazioni giurate né testimonianze personali. Inoltre, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 19-bis del decreto legislativo n. 150/2011 stabilisce specifiche norme relative all’onere della prova nelle controversie sulla cittadinanza. La giurisprudenza, in particolare la sentenza n. 25317/2022 delle Sezioni Unite della Cassazione, assegna al richiedente solo l’onere di dimostrare il legame di discendenza, attribuendo allo Stato, tramite il Ministero dell’Interno, il compito di provare la presenza di eventuali cause ostative al riconoscimento o mantenimento della cittadinanza.

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Le reazioni sulle nuove norme

Le nuove norme sulla cittadinanza ius sanguinis, presentate dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, hanno suscitato un’ondata di critiche provenienti dal Sud America. Da Buenos Aires a San Paolo, da Caracas a Montevideo, si moltiplicano appelli e petizioni sui social, mentre influencer accusano Roma di tradire la memoria storica degli emigrati italiani.

La decisione, definita drastica, mira a porre fine al boom di richieste provenienti soprattutto dal Sud America, in particolare da Brasile e Argentina, dove si stima vivano rispettivamente 30 e 10 milioni di discendenti italiani. La vecchia normativa, considerata generosa e unica al mondo, aveva dato vita a un vero e proprio mercato delle richieste di cittadinanza, alimentato da agenzie che offrivano servizi a costi elevati, talvolta con strategie di marketing discutibili come il “Black Friday della cittadinanza”. Il sistema precedente aveva causato un sovraccarico negli uffici di stato civile e nei tribunali. Le nuove restrizioni sono in linea con le legislazioni degli altri Paesi europei. I numeri parlano chiaro: nel 2024, solo il consolato di San Paolo ha riconosciuto 44.000 cittadinanze italiane, mentre i residenti iscritti all’AIRE sono 370.000 in Brasile e quasi un milione in Argentina. Con la vecchia legge, si prevedeva un raddoppio di queste cifre in meno di dieci anni. Ora, con il limite generazionale, si stima una riduzione dell’80% delle richieste.

 

Criticità​

Uno degli aspetti più problematici e potenzialmente controvertibili della normativa potrebbe riguardare la discriminazione tra i membri della stessa famiglia, qualora la presentazione delle domande di cittadinanza avvenisse in tempi diversi per i componenti dello stesso nucleo familiare. La possibilità che alcuni membri ottengano la cittadinanza italiana mentre altri no, in base al rispetto o meno del limite temporale per la presentazione delle domande, potrebbe essere un terreno fertile per contestazioni legali e richieste di revisione della normativa stessa. Questo tipo di situazione solleva chiaramente delle questioni di uguaglianza e non discriminazione.

Difatti, se all'interno della stessa famiglia ci sono membri che soddisfano gli stessi requisiti (ad esempio, discendenza da genitori o nonni italiani) ma che, per una questione di minuti o giorni, si trovano a non poter beneficiare della cittadinanza (per il semplice fatto di aver presentato la domanda dopo la scadenza), si potrebbe configurare una violazione del principio di uguaglianza. Inoltre, un trattamento discriminatorio tra fratelli o figli potrebbe anche entrare in conflitto con il diritto dei minori a essere trattati con parità e senza discriminazioni. Questo potrebbe costituire un altro possibile terreno di contenzioso, specialmente se i minori vengono esclusi dalla cittadinanza per motivi legati alla tempistica di presentazione delle domande.

Una soluzione potrebbe consistere nell'inserire un'eccezione specifica per i membri dello stesso nucleo familiare, per evitare che la scadenza temporale penalizzi alcuni soggetti in modo irragionevole. Ad esempio, la legge potrebbe prevedere che, nel caso in cui un membro della famiglia sia escluso per il limite temporale, anche gli altri membri (a condizione che siano tutti discendenti diretti di cittadini italiani) possano presentare la domanda in un periodo successivo, così da garantire che la cittadinanza sia riconosciuta equamente a tutti.

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