Temi legali
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L'intervento armato nel diritto interno e internazionale. L'intervento armato o armamento nei confronti di uno Stato terzo

Abstract. L'intervento armato nel diritto interno. Costituzione e leggi ordinarie. Il diritto internazionale e la terzietà di uno Stato rispetto al Patto Atlantico.
L'intervento armato nel diritto nazionale e internazionale è regolato da una serie di norme e principi che determinano quando e come gli Stati possono ricorrere all'uso della forza, ivi compreso il nostro Paese. Le principali fonti normative includono la Costituzione, le leggi sull’armamento e sui trattati internazionali, la Carta delle Nazioni Unite e le consuetudini internazionali.
Il diritto interno
Nel contesto dell'ordinamento giuridico italiano, l'intervento armato e l'uso della forza sono regolati da una combinazione di norme costituzionali, leggi ordinarie e trattati internazionali.
La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 stabilisce i principi fondamentali che regolano l'uso della forza da parte dello Stato italiano e all’articolo 11 stabilisce il principio di rinuncia alla guerra come strumento di offesa e sancisce la limitazione della sovranità in favore di organizzazioni internazionali per il mantenimento della pace. La norma, dunque, sancisce il principio di non aggressione e di pacifismo, ma prevede la possibilità di partecipare a missioni internazionali in difesa della pace (come quelle sotto l'egida dell'ONU o della NATO), sempre nel rispetto dei principi di giustizia e libertà.
L'articolo 78 prevede che il Parlamento abbia il potere di autorizzare l'uso della forza in caso di "guerra". Tuttavia, ciò non riguarda solo la guerra in senso stretto, ma anche operazioni internazionali di difesa collettiva o di pace. Questo implica che, anche se la Costituzione italiana rinuncia esplicitamente alla guerra come strumento di offesa, è comunque prevista la possibilità di un coinvolgimento in conflitti armati legittimi, ma solo previa autorizzazione del Parlamento. Le missioni internazionali di pace, quindi, devono sempre passare attraverso il controllo e l'approvazione delle istituzioni italiane.
L'uso della forza da parte dell'Italia è ulteriormente disciplinato da leggi ordinarie, che in particolare, regolano la partecipazione a missioni internazionali.
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Legge 24 febbraio 1990, n. 185 (Norme per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento): questa legge regola le attività relative al commercio di armi e stabilisce i controlli necessari per prevenire l'esportazione di armi verso Paesi che potrebbero utilizzare questi strumenti in modo illegittimo o per fini bellici non giustificati;
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legge 21 luglio 2016, n. 145, recante disposizioni concernenti la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali modificata dalla L. 168/2024. Questa legge disciplina l'invio di forze armate italiane in missioni internazionali sotto mandato dell'ONU o di altre organizzazioni internazionali, stabilendo che l'Italia può partecipare a missioni di pace solo a seguito di un'apposita autorizzazione parlamentare, che ne approva la partecipazione.
Il diritto internazionale
Nell’ambito del diritto internazionale, l'Italia è parte di numerosi trattati internazionali che regolano l'uso della forza, come la Carta delle Nazioni Unite e la NATO, che impongono regole specifiche per l'uso della forza armata in contesti di difesa collettiva o di mantenimento della pace.
l'Italia è vincolata dai principi stabiliti dalla Carta delle Nazioni Unite, che proibisce l'uso della forza, salvo in caso di legittima difesa o con mandato del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
L'Italia, come membro della NATO (Trattato del Nord Atlantico), ha accettato di partecipare a operazioni militari collettive per difendere l'alleanza e mantenere la sicurezza internazionale, sempre nel rispetto del diritto internazionale.
Ma quali sono i presupposti per un intervento armato?
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legittima difesa (articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite). Nell'ambito del diritto internazionale, la legittima difesa è un principio giuridico secondo il quale uno Stato, qualora aggredito da altre entità, ha il diritto di difendere la propria integrità territoriale e l'indipendenza politica minacciate da tali aggressioni, opponendo una reazione armata, anche con l'assistenza di Paesi terzi.
Già norma di diritto internazionale consuetudinario, il principio è stato poi codificato nell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. L'uso della forza armata, per costituire un “attacco armato” ai sensi dell'art. 51, deve assumere una certa ampiezza ed una certa intensità che ne riveli l'intento offensivo: non costituiscono infatti attacco armato né gli incidenti di frontiera, né azioni militari di carattere isolato. Deve trattarsi poi di un uso della forza armata nei rapporti tra Stati: a commettere l'illecito deve essere uno Stato, dal momento che su di loro incombe l'obbligo di non ricorrere all'uso della forza e sempre uno Stato deve subirlo. Infine, l’attacco armato deve aver già avuto corso, o quanto meno deve essere in corso al momento della reazione: non sarebbe ammissibile quindi la legittima difesa preventiva. Si parla in tutti questi casi di necessità, proporzionalità e immediatezza.
Quanto all'uso della forza in legittima difesa in seguito ad un'aggressione cosiddetta indiretta, da un lato alcuni autori la considerano ammissibile nel diritto internazionale attuale o comunque compatibile con la disciplina dell'art. 51; dall'altro, tale possibilità viene negata. Per aggressione indiretta, ai fini dell'art. 51, si intende la cosiddetta aggressione ideologica ed economica, individuando nella mancanza di un uso diretto della forza l'elemento caratterizzante della figura, senza bisogno di ulteriori specificazioni. L'invio ““by or on behalf of a State” di bande armate, truppe irregolari o mercenari nel territorio di un altro Stato per condurre operazioni militari, è stato indicato dalla dottrina come un caso di aggressione diretta: laddove si provi lo stretto vincolo che lega tali bande armate allo Stato, l'aggressione da loro compiuta sarebbe sicuramente qualificabile come diretta, perché attribuibile in prima istanza allo Stato, piuttosto che alle bande prese singolarmente, le quali agirebbero come organi dello Stato stesso; verrebbe infatti a mancare il requisito principale dell'aggressione indiretta, cioè l'attribuibilità dell'aggressione esclusivamente in capo a privati. Un’altra ipotesi è quella per cui a uno Stato è attribuibile un “substantial involvement” nelle attività poste in essere dai suddetti gruppi, bande, truppe o mercenari. L'espressione indica la mera assistenza a soggetti privati che preparano o portano avanti operazioni militari contro un altro Stato.
In questo senso, si configura il caso della Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, in cui il gruppo armato M23 che agisce supportato dal Rwanda, in realtà è un gruppo di guerriglieri privati (peraltro congolesi). Le azioni dei gruppi armati andrebbero sempre tenute distinte dagli atti di assistenza o di acquiescenza dello Stato. Se le bande agiscono come individui privati, senza alcuna connessione, neanche ufficiosa, con l'organizzazione militare dello Stato e quest'ultimo si limita a dare loro vari tipi di assistenza o semplicemente tollera la presenza di questi gruppi sul suo territorio, la condotta delle bande armate non potrebbe costituire un atto illecito sotto il diritto internazionale perché non sarebbe possibile attribuirlo ad uno Stato. La condotta statale sarebbe sì internazionalmente illecita, ma non sarebbe assimilabile ad un attacco armato o ad un uso della forza giustificante una reazione ai sensi dell'art. 51.
Tra i casi in cui è stato invocato tale principio, viene ricordata la seduta in seno al Consiglio di Sicurezza nel luglio del 1951 ove venne discussa la proposizione di restrizioni imposte dall'Egitto al passaggio nel Canale di Suez delle navi dirette verso porti israeliani; restrizioni giustificate dall’Egitto con il ricorso ai principi della “self-defence" e della “self-preservation". La Corte Internazionale di Giustizia, nel caso Nicaragua contro Stati Uniti, ha sottolineato, invece, che l'assistenza a gruppi armati non costituisce un attacco armato ai sensi dell'articolo 51. Nel caso dell’intervento della NATO in Kosovo (1999), la NATO avviò un intervento aereo in Kosovo, senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Questo ha sollevato interrogativi sulla legittimità dell'uso della forza senza mandato internazionale;
2. guerra preventiva (o un colpo preventivo): è il tentativo di respingere o sconfiggere un'offensiva o un'invasione percepita come inevitabile, o per ottenere un vantaggio strategico in un'imminente guerra (presumibilmente inevitabile), prima che la minaccia si materializzi. Uno dei più vasti esempi di guerra preventiva è la Dottrina Bush, ovvero le operazioni che gli Stati Uniti d'America intrapresero in politica estera dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. La prevenzione bellica può essere giustificata nei seguenti casi:
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la natura e l'entità della minaccia coinvolti;
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la probabilità che la minaccia si concretizzi a meno che non venga presa un'azione preventiva;
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la disponibilità e l'esaurimento delle alternative a usare la forza;
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se l'uso della forza preventiva è coerente con i termini e le finalità della Carta delle Nazioni Unite e di altri accordi internazionali applicabili.
L’intervento armato nei confronti di un Paese terzo al Patto Atlantico
L'intervento armato a difesa di un Paese terzo non appartenente alla NATO, come ad es. l'Ucraina, è un tema complesso nel diritto internazionale. Si parla, in tal caso, di legittima difesa collettiva che contempla l’ipotesi in cui uno Stato, pur non essendo stato oggetto di attacco armato straniero, può intervenire in favore di uno Stato terzo che abbia subito l’attacco. Naturalmente, la legittima difesa collettiva condivide le stesse premesse su cui poggia la legittima difesa individuale. Infatti, per potersi invocare lecitamente il ricorso alla legittima difesa – preventiva o postuma che sia rispetto a un possibile attacco – è necessario che l’aggressione possa essere qualificata come “armata” e l’attacco imminente dev’essere talmente grave, da rendere l’immediato soccorso una condizione imprescindibile e insostituibile con altri mezzi di dissuasione o prevenzione. Naturalmente lo Stato aggredito deve aver prestato relativo consenso all’intervento dell’interveniente o gli deve aver espressamente richiesto aiuto. D’altro canto, però, non è necessario che tra lo Stato interveniente e lo Stato vittima sia già in essere un trattato di alleanza militare o d’altro genere.
Tali interventi possono avvenire sia sotto forma di assistenza diretta alle forze armate del Paese in difficoltà, sia attraverso la fornitura di armamenti.
Vediamo i presupposti:
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consenso dello Stato destinatario: è fondamentale che lo Stato che riceve assistenza militare acconsenta esplicitamente all'intervento. Questo consenso può essere espresso formalmente o desunto implicitamente, ma deve essere chiaro e inequivocabile. La Corte Internazionale di Giustizia, nel caso Nicaragua contro Stati Uniti succitato, ha sottolineato che il diritto di legittima difesa collettiva esiste nel diritto internazionale generale e che uno Stato non attaccato può assistere uno Stato vittima di un attacco armato, purché vi sia il consenso dello Stato aggredito;
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proporzionalità e necessità: l'intervento deve essere proporzionato all'entità dell'aggressione subita dallo Stato terzo e deve essere una risposta necessaria per respingere l'aggressione. L'uso della forza deve essere limitato nel tempo e nello spazio, evitando escalation non necessarie;
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assenza di alternative pacifiche: prima di ricorrere all'uso della forza, devono essere esauriti tutti i mezzi pacifici disponibili per risolvere la controversia, come negoziati, mediazione o ricorso a organismi internazionali competenti.
Per quanto riguarda, invece, la fornitura di armamenti a un Paese terzo non appartenente alla NATO, questa è soggetta a rigorose normative internazionali e nazionali. Secondo controlli nazionali, gli Stati devono rispettare le proprie leggi nazionali riguardanti l'esportazione di armamenti. Ad esempio, l'Italia applica la Legge 185/1990, che stabilisce criteri e procedure per l'esportazione, importazione e transito di materiali di armamento, vietando l'esportazione verso Paesi coinvolti in conflitti armati o che violano i diritti umani. L'articolo 1 della detta legge stabilisce che l'esportazione di armamenti, munizioni e altri materiali di guerra è sottoposta a un’autorizzazione preventiva da parte del governo italiano. Le esportazioni sono autorizzate solo se rispettano una serie di criteri, che prendono in considerazione i rischi legati all'uso finale delle armi, come:
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la situazione politica interna: se un Paese è coinvolto in conflitti armati o se vi è un rischio che le armi vengano usate contro la popolazione civile;
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il rispetto dei diritti umani: la legge vieta l'esportazione di armi verso Paesi che violano i diritti umani o che sono coinvolti in genocidi, crimini contro l'umanità o crimini di guerra;
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la stabilità regionale: se l'export di armi potrebbe contribuire ad alimentare conflitti o guerre in una regione instabile.
L'articolo 6 della Legge 185/1990 stabilisce che l'Italia non esporta armamenti verso Paesi coinvolti in conflitti armati o che potrebbero utilizzare le armi per scopi aggressivi, violando le convenzioni internazionali. Questo principio è chiaramente orientato a prevenire l’esportazione di armi verso Paesi dove il rischio di utilizzo improprio è elevato.
Nel caso di un Paese che è, invece, vittima di aggressione, come l'Ucraina, l'Italia potrebbe autorizzare l'esportazione di armi per supportare la difesa, a condizione che il Paese destinatario abbia richiesto esplicitamente il supporto e che le armi siano utilizzate esclusivamente per la legittima difesa contro l'aggressione ( e non per aggredire a sua volta) e che le armi non vengano utilizzate per violazioni del diritto internazionale, ad esempio per colpire obiettivi civili o per perpetuare crimini di guerra.
Il governo italiano deve effettuare una valutazione rigorosa dei rischi associati all'export di armamenti, considerando la stabilità regionale e i possibili sviluppi del conflitto.
Le linee guida sono quelle stabilite dalla Carta delle Nazioni Unite e devono garantire che l'assistenza militare non contribuisca a perpetuare violazioni gravi del diritto internazionale umanitario.
La legge prevede, infine, che anche il transito e la re-esportazione di armamenti (ad esempio, il trasferimento di armi italiane da un Paese a un altro) siano soggetti a controlli. Se le armi vengono trasferite in Paesi terzi, l'Italia deve assicurarsi che non vengano usate per scopi contrari alla pace e alla sicurezza internazionale.
Gli esempi più noti di applicazione della Legge 185/1990 hanno riguardato l’export di armamenti in Paesi come:
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Libia: l'Italia ha sospeso le esportazioni di armi verso la Libia durante il conflitto civile;
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Siria: la legge ha impedito l'export di armi verso la Siria, soprattutto a causa del coinvolgimento del regime di Bashar al-Assad in gravi violazioni dei diritti umani.
A livello europeo, la Politica Comune di Sicurezza e Difesa (PCSD) dell'Unione Europea (UE) e le norme sull'esportazione di armi stabiliscono criteri simili per l'esportazione di armamenti da parte degli Stati membri. La Politica Europea di Esportazione di Armi è regolata da una serie di linee guida che si basano su principi di responsabilità e controllo rigoroso. Uno degli strumenti principali per regolamentare l'esportazione di armi a livello europeo è il Codice di Condotta dell'UE sull'Esportazione di Armi. Questo codice è stato adottato nel 1998 e stabilisce 8 criteri fondamentali per l'autorizzazione all'esportazione di armi verso Paesi terzi. I criteri si basano su concetti molto simili a quelli della Legge 185/1990 e includono:
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il rischio di utilizzo delle armi per violazioni dei diritti umani;
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il rischio che l'export contribuisca a perpetuare conflitti in una regione instabile;
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l’esportazione solo a Paesi che rispettano la pace e la sicurezza internazionale;
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legittima difesa: gli Stati membri dell'UE possono esportare armi a Paesi che sono vittime di un'aggressione armata, a condizione che il trasferimento non violi le regole di non proliferazione e che l'uso delle armi sia destinato esclusivamente alla difesa legittima.
Nel caso dell'Ucraina, l'Unione Europea ha adottato un approccio più diretto nel fornire sostegno umanitario, economico e militare. Pur non essendo un membro della NATO, l'Ucraina ha ricevuto supporto in virtù della sua legittima difesa contro l'aggressione russa, e tale assistenza è stata conforme alle normative europee sulla responsabilità e il controllo delle esportazioni di armi.
In conclusione, l'intervento armato a difesa di un Paese terzo non appartenente alla NATO è ammesso nel diritto internazionale a condizione che siano rispettati i principi di consenso, proporzionalità, necessità e che siano esaurite le vie pacifiche di risoluzione dei conflitti. La fornitura di armamenti a tali Paesi richiede un attento rispetto delle normative nazionali e internazionali, garantendo che le armi non vengano utilizzate per scopi contrari al diritto internazionale.
L'uso illegale della forza può portare a responsabilità penale individuale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce crimini di guerra e stabilisce le basi per la giurisdizione e la procedibilità. Gli atti vietati includono omicidi intenzionali, torture e attacchi indiscriminati contro civili.
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